
Maria ha 46 anni e fa la casalinga. Non lavora fuori casa, ma chiunque abbia provato a gestire una famiglia sa che non è certo un mestiere leggero. Vive in un appartamento con il marito e due figli adolescenti, che hanno un talento particolare: riuscire a lasciare in giro di tutto. Bicchieri, vestiti, scarpe, zaini. Lei passa le giornate a sistemare, pulire, rimettere ordine. Ogni tanto prova a chiedere una mano, ma la risposta è sempre la stessa: "Dopo mamma, adesso ho da fare".
E così si ritrova a fare tutto da sola. Il problema è che negli ultimi anni la sua schiena ha iniziato a protestare. All'inizio era solo un fastidio, una specie di rigidità che compariva la sera. Poi è diventato un dolore vero, sempre più forte, che non le dava tregua nemmeno quando cercava di dormire.
La decisione di chiedere aiuto
Come tante persone, Maria ha resistito a lungo. "Passerà", si ripeteva. Ha provato pomate, cerotti, qualche farmaco preso al bisogno. Ma non passava. Una mattina, mentre cercava di sollevare una cassetta di acqua, ha sentito una fitta talmente forte da lasciarla senza fiato. È stato il momento in cui ha deciso di farsi vedere.
Quando è arrivata in ambulatorio, l'ho trovata stanca ma determinata. Mi ha raccontato la sua routine: le faccende, i figli che non collaborano, il senso di non riuscire più a stare dietro a tutto. Non era solo un dolore fisico, era anche un peso emotivo. La ascoltavo e pensavo a quante storie simili mi capita di incontrare: mamme che portano sulle spalle, in tutti i sensi, la casa intera.
La visita e la risonanza magnetica hanno chiarito la situazione: sindrome delle faccette articolari lombari. Una diagnosi frequente, ma spesso sottovalutata.
Il primo passo: il block test
Le ho proposto un block test, una piccola procedura in cui si inietta un anestetico vicino alle faccette articolari per capire se sono davvero loro la causa del dolore. Maria era un po' agitata, e me l'ha detto chiaramente: "Dottore, io con gli aghi non vado molto d'accordo". Le ho sorriso: "Tranquilla, non piace a nessuno, ma dura pochi minuti e ci darà una risposta importante".
Il risultato è stato sorprendente. Subito dopo la procedura, Maria si è alzata dal lettino con una faccia nuova. "Dottore, mi sembra di volare", ha esclamato. Era incredula. Non era guarita per sempre, certo, ma per la prima volta dopo mesi aveva la conferma che il dolore non era "nella sua testa" e che si poteva fare qualcosa di concreto.
L'effetto è durato circa un mese. È tornata da me più sollevata, ma anche un po' dispiaciuta: "Stavo così bene, poi piano piano è ricominciato tutto".
La radiofrequenza
A quel punto le ho proposto la radiofrequenza delle faccette articolari. Le ho spiegato che non si trattava di un'operazione vera e propria, ma di una procedura minimamente invasiva in cui andiamo a "silenziare" i nervi che portano il dolore. Non si elimina nulla, non si altera la colonna, si toglie semplicemente la voce a chi urla troppo.
Maria ha accettato. Mi ha detto ridendo: "Facciamo quello che vuole, basta che poi riesco a rifare i letti senza piangere dal male".
La radiofrequenza è stata eseguita senza problemi. Dopo qualche settimana, il dolore era quasi sparito. Lei stessa non ci credeva: "Non ricordo l'ultima volta che ho fatto la spesa senza fermarmi ogni cinque minuti".
Un anno dopo
L'ho rivista a distanza di un anno. La sua prima frase è stata: "Dottore, la mia schiena regge meglio dei miei figli!". Ha ripreso la sua vita di sempre: pulizie, lavatrici, mille corse. I ragazzi, come previsto, non hanno iniziato a collaborare molto di più. Anzi, forse sono ancora più casinisti. Ma la differenza è che adesso Maria riesce a gestire tutto senza il freno costante del dolore.
Non significa che la radiofrequenza sia una soluzione definitiva in tutti i casi. Ogni paziente è diverso e il dolore ha tante cause. Però per lei è stato un passo fondamentale. Le ha restituito libertà e serenità.
Perché racconto questa storia
Storie come quella di Maria sono comuni, ma spesso restano invisibili. Tante persone convivono per anni con dolori cronici, convinte che "sia normale". Non lo è. Esistono terapie mirate, sicure, che possono davvero cambiare la vita.
A volte il primo passo è solo quello di non rassegnarsi, di chiedere aiuto. Non sempre si trova la soluzione perfetta al primo tentativo, ma un percorso personalizzato può fare la differenza.
Maria oggi non è diventata una supereroina. È rimasta la stessa casalinga con due figli casinisti. Ma ha smesso di sentire il dolore come una condanna. E questo, per lei, vale più di qualsiasi altra cosa.